Mr. Internet? Ma di che stiamo parlando? #Mia13

26 Ago

Bello senz’anima. Uomo oggetto. Mezza calzetta. Due anni a scrivere contenuti e mi ritrovo questa candidatura incomprensibile: Mr. Internet. Non lo so cosa vuol dire: potrei mai diventare l’alter ego maschile di Chiara Ferragni o di Selvaggia Lucarelli? (stima infinita). Credo di no, eppure ci sono, tra i 10 finalisti, e non so se il merito sia delle foto postate dal Messico o della barba alla Moscardelli (a proposito, complimenti per la sua nuova linea FlyBeard: antidivo, anticalciatore e altre considerazioni che mi tengo per il prossimo post). Lasciatemi però l’illusione che, almeno in parte, il merito sia di ciò che scrivo.

Visto che ho pubblicato più di 100 post nell’ultimo anno, due racconti, un romanzo (Domani No, potete acquistarlo anche in ebook) e svariate altre cose, credo di poter dire la mia, a questo punto. Intanto vi svelo un arcano: se sono tra i finalisti il merito è senza dubbio di Fiordirisorse (se potete non perdetevi l’evento del 18 settembre, insieme a Luna Margherita Cardilli e Osvaldo Danzi parlerò di Personal Branding presso Lo spazio di Paolo a Pescara). Mentre io ero in Messico a postare foto su Instagram (ne farò un format, sappiatelo) e a cercare ispirazione per le mie nuove storie, loro si sbattevano a portare la mia candidatura in cima alla classifica. Riuscendoci.

E pensare che non mi sono votato nemmeno da solo. In ogni caso, i Macchianera Italian Awards rappresentano un riconoscimento importante e vincere, seppur nella categoria “Mr. Internet“, non mi dispiacerebbe affatto. In fondo una foto con Sarinsky sul palco potrebbe alzare il mio Klout. Ho detto il Klout, non fate gli spiritosi. Però votatemi. Che vi costa? Ah, visto che sono un ciarlatano mica da niente, ho piazzato due finalisti anche nella categoria fake. Ma non vi dico chi sono, sennò che fake sarebbero.

Che faccio quindi, metto la foto da Ma di che stiamo parlando? Mi hanno detto che funziona.

Ma di che stiamo parlando?

Il post più sentito è quello meno social. Mi fermo, ma solo per un po’.

26 Lug

Domani parto. E chissenefrega, direte. La notizia non è certo la mia vacanza, che poi vacanza non è (ci sarà da sudare, in tutti i sensi). La notizia, entriamo subito in tackle scivolato, è che io mi fermo qui, per un po‘. Ho fatto qualche calcolo, tra post scritti per il mio blog, per i clienti e per i miei collaboratori più stretti. Ho guardato le interazioni su Facebook, Twitter, Linkedin, Google Plus e le ore che ho dedicato ai Social. Metà del mio tempo, più o meno. O magari qualcosa di più, anche a scapito di cose mie personali. Lo rifarò, perché se il mio lavoro è questo mi devo rassegnare a questo (tutto sommato piacevole) destino. Quindi nessun rimpianto.

Mi fermo dicevo. Non lo faccio tanto per me, quanto per i fruitori dei miei messaggi. Parliamoci chiaro: amo quello che faccio. Datemi un condizionatore (che funzioni, possibilmente) e un giorno libero a settimana e sono a posto. Non ho bisogno di molto altro. Anche se è estate. Eppure sono convinto che sia arrivato anche per me il momento della famosa dieta informativa di cui si parlava con Luca Conti qualche mese fa. E per quanto sia difficile per me rinunciare a scrivere su un blog e in gran parte ai Social, sono convinto che questa sia la scelta giusta per tornare più motivato (e incazzato, passatemi il termine) di prima.

#VadoInMessico (non potevo rinunciare all’hashtag, quello è un vizio), girerò in macchina dallo Yucatan al Chapas, arriverò in Guatemala e poi chissà dove negli States. Mi disconnetto per riconnetermi. Cercherò di guardare meno lo smartphone e al posto degli aggiornamenti di status proverò a cogliere tutte le sfumature della giornata. Quelle sfumature alle quali ho rinunciato spesso, per tenere la testa bassa sull’iPhone. Gli sguardi, i cieli, le nuvole, le luci. Non dovrebbe essere difficile visto che la copertura wireless dovrebbe essere bassa e il sole alto. E caldo. Sia chiaro che non sto assolutamente sputando nel piatto dove mangio, anzi. Continuo a credere nella rete, nei social e in tutto quello che mi permette di campare discretamente (e in fin dei conti di fare questo bel viaggio). Credo però, con altrettanta convinzione, di averne leggermente abusato. E non mi vergogno ad ammetterlo.

Mi prendo una pausa quindi, ben sapendo che non vi mancherò. E non per falsa modestia. La rete è piena di contenuti, i blog sono pieni di post e un mese senza Cristiano (anche due o tre) si può stare. Andrò in fondo per capire se davvero, per essere social, c’è bisogno di essere sempre connessi. O se, sotto sotto, possono nascere grandi idee e nuovi straordinari progetti anche solo con un taccuino. Domani parto e mi cago un po’ addosso. Chi dice che è pericoloso, chi dice che ci sono gli uragani, chi pensa che non è per me il momento giusto per questa avventura. E anche questo è un segno. Sono diventato molto bravo con la tastiera, ma ho perso lo spirito ribelle di quel ragazzo che scrisse In giro per l’Europa. Quel ragazzo non aveva Facebook, ma non aveva paura di nulla. Io so solo che ho bisogno di respirare meno wireless e più vento. E se pensate che questa sia solo una scusa, me ne farò una ragione. Per una volta, abbiate pazienza. Ma torno presto, #NientePaura.

large

Quando al copy basta una lettera. Per emozionarsi (e vendere).

24 Lug

Di mestiere faccio il copy, almeno ci provo (sì, sono sempre io, quello che cercate su google scrivendo “laureato in lettere e adesso?“). E per questo mi emoziono quando un altro copywriter (no, non lo chiamerò collega) crea qualcosa di geniale. Siccome ultimamente di cose geniali ne vedo poche (a parte su Quink) e poiché c’è sempre bisogno di emozionarsi, anche quando si lavora, allora devo dire che quella di ieri è stata una sorta di epifania per il sottoscritto. Il The Sun che diventa The Son, in onore del piccolo Royal baby.

Una lettera. Un suono, una pronuncia. Una provocazione. Ma se cambiassimo il nome del giornale per un giorno? Avrà affermato il copy. Che poi certe volte, idee come queste vengono da chi fa tutt’altro mestiere, ma poco importa. Un caporedattore, un inviato, il ragazzo del thé (maledetti film, ho sempre questa immagine in testa quando penso a The Millionaire). Immagino la faccia del CdA del secondo quotidiano più venduto al mondo, le frasi killer: “Ma non sarà troppo azzardato? Non abbiamo mai fatto una cosa del genere“.

E lui (il copy o il ragazzo del thé) che insiste: una lettera signori, una sola, ed entriamo nella storia. Ma cosa avranno pensato i custodi delle linee guida? Quelli che affermano sempre “La style guide non lo permette“? Esiste quindi un’eccezione alla regola, e quando è possibile uscire out of the box come dice sempre il mio amico Lorenzo Braconi? Perché vedete, noi scribacchini (ecco, adesso mi sento più a mio agio) dimentichiamo spesso di fare i conti con l’oste. E quando andiamo dall’Art Director succede che spesso ci scontriamo con lui (o lei, l’heart director).

E quindi tu vuoi dirmi che tutto il tuo sforzo creativo consiste nell’aver cambiato una lettera? Dice.

Sì, ti pare poco, c’ho pensato due ore. E poi è una genialata. Rispondo

Mi serve un titolo di due righe ti dico. 

Fottiti, ho cambiato una lettera e cambieremo la storia, dammi retta. 

Quando mi faccio questi film, di solito, mi confronto con Graziano. Ah, non chiamatelo Art Director, si incazza. Preferisce Identity Designer, il perché chiedetelo a lui, fa figo comunque, quindi mi sa glielo faccio mettere sul biglietto da visita. Ecco, lui è talmente Identity che preferirebbe crepare piuttosto che venir meno ai principi della brand identity. Eppure questa volta mi ha colpito, arrivando a dirmi che il cambio di nome del giornale è paradossale, ma è la massima espressione dell’identità di un brand. Il valore differenziante del quotidiano inglese – mi dice – è quello di essere nella notizia, e proprio in onore di questo valore è stato fatto ciò che non si può fare: modificare il brand. Un brand che non è mai stato più forte di ieri. 

Insomma, non si è trattato di un’intuizione, ma di una vera e propria campagna pubblicitaria. Geniale, virale (effetto social) e soprattutto commerciale. Quanti avranno comprato una copia del The Sun ieri? Quanti ne vorranno custodire l’unica copia? Quella che tra qualche decennio diventerà storia? Insomma, a volte basta cambiare una lettera per ottenere la campagna perfetta. Così dice Graziano, così dico anche io.

Ditemi anche la vostra.

945735_10151612477328387_183297758_n

 

73) Bari – Milan, 5 aprile 1998 – U Bàr iè fort (?)

18 Lug

Ad aprile ci ritroviamo sempre a parlare di salvezza. Quando va bene. Non ricordo un aprile sereno, nella mia storia di tifoso biancorosso, almeno se parliamo di serie A. Però (all’epoca dei fatti) sono poco più che un ragazzo, ho diciannove anni, e in fondo chi se ne frega se il Bari si deve ancora salvare. Se questo pensiero rientra tra le cose che mi tolgono il sonno non ho molto di cui preoccuparmi. Gli esami di maturità al massimo, quelli che racconterò qualche anno più tardi in Domani No, ma tutto sommato vivo alla giornata, e gli esami sono ancora lontani dalla mia stanza, e non solo. Per esempio sono lontani dallo Stadio San Nicola, il 5 aprile del 1998.

Il mio Bari affronta il Milan e deve fare punti per salvarsi. Non importa essere partiti con il piede giusto anche questa volta. Un marzo da brividi ha compromesso tutto, e adesso ci si ritrova a lottare con l’Atalanta, il Vicenza e il Piacenza. Sono rimaste 7 giornate, e il calendario, tra big e scontri diretti non è cortese, anzi. Lo scorgo mentre mi accomodo in tribuna est e “Il Galletto” mi informa che il Bari scenderà in campo con una maglietta celebrativa, diversa dalla solita. Si andrà a Udine, a Piacenza, a Bergamo, si ospiterà il Vicenza e la corazzata Inter. Sì, quella di Ronaldo. La squadra che per gli almanacchi, al netto di rivedibili decisioni arbitrali, perderà lo scudetto proprio per colpa (merito) del Bari.

Poco male, una partita alla volta. Il vento soffia timido, si sta bene anche in maglietta, specie se hai meno di 20 anni e ti pulsa forte il sangue nelle vene. Roba di amori, di passioni, di corse in bicicletta e pomeriggi al sole a non far nulla. Il Bari scende in campo con una maglia anni ’50, come annunciato, e la scritta “Un calcio all’indifferenza” al posto dello sponsor Gio.Bi trasporti. Chissà che fine hanno fatto quelli di Gio.Bi trasporti, se racconteranno ai nipoti di aver sponsorizzato una squadra di serie A. Adesso li cerco su Google. Il Milan gioca in maglia nera. Nera come la stagione della squadra di Capello, partita con i favori del pronostico. Ba e Kluivert i giocatori che avrebbero dovuto fare la differenza. Del primo si ricordano soprattutto i capelli color platino e la smania di somigliare a Denis Rodman, del secondo, personalmente, ricordo soltanto la doppietta al Bari, proprio nella partita di andata. C’ero quel giorno a San Siro. Ricordo il freddo di dicembre e l’odore delle castagne e delle pannocchie (col sale, mi raccomando) prese per strada a Milano. Della partita conservo la noia, fino alla doppietta del misterioso olandese. E la più classica delle frasi “tutti con noi si devono svegliare“.

Fascetti sa che deve vincere. Osa le due punte. Una si chiama Allback ed è arrivato in Italia con la fama del bomber. Deve sostituire l’infortunato Ventola ma di lui si ricorda un palo, un assist (contro il Napoli) e poco altro. Almeno non fa danni. Non inciampa, non rallenta l’azione, non sbaglia gol impossibili. Semplicemente non pervenuto. Ho visto di peggio nella mia vita. Masinga non sembra in palla. Dopo 5 minuti si mangia un gol clamoroso facendosi ipnotizzare da Seba Rossi. Al 14′ della ripresa, ancora solo, cincischia e perde l’attimo per battere a rete. Dagli spalti arriva qualche fischio. Philemon non ha mai rappresentato l’attaccante ideale del tifoso barese. Poco scaltro e molto utile, segna poco ma fa gol pesantissimi. Ne ricordo diversi, quasi tutti decisivi. Alcuni molto belli, come quello con l’Empoli o la girata con la Sampdoria.

Ma il tifoso è severo. Lo vede pesante, macchinoso. Fa fatica a saltare, mi dice il fenomeno seduto accanto a me. Sì, e Zambrotta fa fatica a partire. Manca un quarto d’ora e iniziamo a guardare l’orologio come se si giocasse con la provinciale di turno. Questa partita va sbloccata, non possiamo pareggiarla. Fa niente che l’avversario si chiami Milan, a nessuno quei ragazzi in maglia nera ricordano gli eredi della stirpe divina del berlusconesimo. La difesa poi, con Nielsen, Smoje e Daino, sembra finta. Si soffre però. Donadoni, richiamato in fretta e furia dai Metrostar, costruisce anche un’occasione importante per portare il Milan in vantaggio. Ci pensa Franco Mancini a sbarrare la strada Ganz uscendo come solo lui sa fare. Come un gatto. Potenza e agilità, quanto mi manchi portierone.

Poi accade quello che non si può dimenticare. Quelle scene (minuti, frazioni di secondo) che nel calcio ti rimangono nella mente, magari solo perché alla fine della corsa quel pallone finisce in rete e tu puoi esultare e dire al tuo vicino di posto che no, il calcio non è cosa sua. Abbracciandolo, ovviamente. Zambrotta corre, ma ad un certo punto non si accontenta di correre. Mette il turbo, sulla destra, perché deve lasciare sul posto il suo diretto avversario, che in questo caso è un certo Daino. Zambro va fino in fondo, come nel perfetto manuale dell’assist, e mette in mezzo un fendente alto e calibrato. Morbido, e teso al tempo stesso. Ci provano in tre ad intervenire su quel cross ma nessuno ci arriva. Poi vedi lui. La sua testa lucida e pelata. Il suo passo felpato, nonostante la stazza.

Masinga salta e inclina leggermente la testa verso sinistra. Quel tanto che basta per deviare la traiettoria del cross e la stagione del Bari. Rossi resta immobile, il pallone finisce in rete e lo stadio esplode. Una rete fondamentale per le sorti della stagione. Ve l’avevo detto, vorresti dire. Masinga corre verso la Nord e la maglia celebrativa finisce nel museo della storia. Il Bari vince una partita non indimenticabile, ma i tre punti sono ciò che contano. Phil esulta, il sole scende pian piano ma la giornata prende un’altra piega. Ora si può andare in cortile a farsi crossare il pallone di spugna ed emulare Masinga. E se andrò in porta rimarrò fermo, a guardare il pallone che si infila lì, dove sognare è ancora possibile.

Ti è piaciuta la storia? Su facebook trovi tutte le puntate di U Bàr iè fort!

Masinga batte Rossi (foto Pianetabiancorosso)

Masinga batte Rossi (foto Pianetabiancorosso)

72) Bari – Lanciano, 13 aprile 2013 – U Bàr iè fort (?)

5 Lug

Cosa c’è di più complicato che emozionarsi in un campionato mediocre? Sette punti di penalizzazione, una rincorsa continua, una scalata senza meta. Tanto ai play off non ci arrivi e se ci arrivi ti mangiano, perché quelli che stanno lassù sono più attrezzati e non vivono alla giornata come noi. Torrente lo sa e costruisce il suo gruppo motivandolo partita dopo partita, annullando subito la penalizzazione. Ma nel calcio i “meno” non te li togli mai dalla testa (e dalla classifica). Fai sempre quei maledetti calcoli, con sette punti in più saremmo al quinto posto, e non ti rendi conto che arriva un momento che quel debito inizia a pesare sulla tua testa.

Arriva tra marzo e aprile quel momento. Il Bari, che fino a quel punto ha vissuto dell’entusiasmo dei giovani, di simpatia, di corse sul lungomare e panini a Pane e Pomodoro, Gangam Style e facce pulite come quelle di Sciaudone, Lamanna e Rossi, si ritrova immischiato nella lotta per non retrocedere. Dopo Reggio Calabria (partita persa per 1 a 0) cominciano le paure. Torrente ha perso la squadra dalle mani, si dice. Ma la Società (o chi per lei) non lo mette in discussione. Si va avanti con lui. E sinceramente, mai mossa fu più azzeccata (devo ancora capire cosa ci fa, oggi, Torrente in Lega Pro).

Il 13 aprile arriva a Bari il Lanciano di Gautieri. Uno che quando correva sulla fascia del San Nicola, a metà degli anni ’90, ricordava il Nino della canzone di De Gregori. Il pallone, stregato, gli rimaneva davvero attaccato al piede. Nonostante sembrasse farraginoso, sgraziato, un po’ curvo sulla schiena. Una volta fece girare la testa a Maldini e Costacurta e mise alle spalle di Rossi il pallone della vittoria contro il Milan. Batteva i rigori (ma a volte li sbagliava) e diceva sempre che se non avesse fatto il calciatore avrebbe fatto il benzinaio. Durante l’era Materazzi fece anche il secondo portiere, sedendo in panchina con il numero 12.

Gautieri allena bene, ha costruito un mezzo miracolo in Abruzzo, dove una presidentessa bella (molto) e ambiziosa ha portato per la prima volta il Lanciano in serie B. Un giorno, si dice, allenerà il Bari, ma quel giorno è lontano, dopo che sei in vantaggio per 3 a 0 nello stadio che è stato il tuo. Accade dopo un primo strano, nel quale il Bari gioca anche piuttosto bene, colpisce un palo, spreca due occasioni incredibili con Caputo e Ghezzal e subisce. Non uno, ma tre gol. Io sono lontano. Molto lontano. A Bologna per la precisione. Mi collego a Twitter di tanto in tanto e leggo che siamo sotto di tre gol, grazie agli aggiornamenti preziosi di Marco Beltrami. Non si può perdere, davvero non si può.

Significherebbe la fine. Provo a pensare positivo, basterebbe un gol per riaprirla, mi collego con Salomone (come se fosse un’emittente, un’entità astratta ma sempre presente nelle nostre vite di tifosi), il tempo di apprendere che Sciaudone fa partire un tiro da fuori area e riapre la gara (per modo di dire). Un tiro preciso e angolato, dice Michele. La sua voce sembra leggermente rinfrancata. E spesso il tono della sua voce ha il potere di farti sentire ancora in corsa. Resto aggrappato a lui, ci credo, ci credo davvero ma più per una sorta di istinto di sopravvivenza. Se perdiamo siamo spacciati. Defendi avanza, mette un pallone al centro sul quale si avventa Caputo. Gol! Due a Tre, li prendiamo.

Devo momentaneamente staccare il cellulare, due minuti, mica tanto. Il tempo dei saluti. Ci vediamo presto. Mi infilo la giacca vado a prendere l’ascensore. Il tempo di dare uno sguardo a Facebook e leggo che il Bari è addirittura passato in vantaggio. Quattro a tre. E fa niente se mi sono perso la radiocronaca. La recupererò a casa. Ho già deciso che farò uno Storify su questa storia. Apprendo che il terzo gol è stato segnato da Defendi. Poi ci pensa Tallo, questo sconosciuto, a portare in vantaggio il Bari. E immagino le urla di Michele Salomone, il suo “non ci credo, non è mai successo prima“. Spengo tutto, non può succedere più nulla, non deve succedere più nulla. Tutto ciò che devo fare e tornare a casa per rivedere i gol, chiudere gli occhi, e immaginare di essere al San Nicola nel momento del boato. Nel momento in cui Tallo rovescia una partita decisiva in un campionato inutile. Ma tant’è. Il calcio è meraviglioso anche per questo. Perché sa regalarti emozioni indelebili fini a se stesse. Anche se non ti stai giocando la serie A. Anche in un campionato che non passerà alla storia.

Il gol di Martino Defendi

Il gol di Martino Defendi

Domani No HubBari, martedì 25 giugno

20 Giu

Anche se non tutti lo sanno, questa storia comincia con un blog. Il mio. I primi capitoli di “Domani No sono stati pubblicati qui, per vedere l’effetto che faceva. Se la storia poteva piacere, come doveva svilupparsi e andare avanti. Mentre io scrivevo (e mentre Gelsorosso approvava e correggeva) Francesco Antonacci e Monica Del Vecchio, assieme a Giusy Ottonelli e Diego Antonacci, davano vita ad un grande progetto. Uno spazio che avrebbe cambiato il modo di lavorare e di intraprendere (termine che prediligo rispetto ad imprendere), a Bari. Nella mia città.

Hub Bari, un innovativo spazio di coworking per innovatori sociali. Un luogo dove trovare ispirazione ed entrare in contatto con altri imprenditori, liberi professionisti, creativi, esperti d’informatica, persone unite dal desiderio di avere un impatto positivo sulla città e sul mondo. Parte di una rete internazionale di bellissimi spazi fisici dove imprenditori, creativi e professionisti possono accedere a risorse, lasciarsi ispirare dal lavoro di altri, avere idee innovative, sviluppare relazioni utili e individuare opportunità di mercato. Vi invito caldamente a visitare il loro sito. 

Martedì 25 giugno, io e Francesco, grazie alla preziosissima collaborazione di Carla Palone e di Gelsorosso, realizzeremo un grande obiettivo. Portare un romanzo, il mio, dentro il The Hub. In un ambiente molto diverso da quello delle librerie ma non per questo meno stimolante. Anzi. Domani No troverà la sua collocazione ideale grazie ad una storia che nasce sul web e dal web prende vita grazie a contaminazioni con il mondo della musica, dei videomaker e dei blogger.

La presentazione, che si svolgerà dalle 18.30 in poi, sarà moderata da Marianna Colasanto di Radioluogocomune (sarò anche loro ospite in radio lunedì pomeriggio dalle 16 alle 17, nel programma Play with us) e sarà un pretesto anche per parlare di Personal Branding, blog e storytelling, l’evoluzione della specie. Come trasformare una passione in un lavoro, o in qualcosa che gli somiglia molto.

Su questo tema si dibatterà anche con:

Fabio Fanelli, Account e copywriter, speaker radiofonico, freddurista e simpsonologo convinto, nonché membro del gruppo Basette Goal.

Danilo Dell’Olio, autore e protagonista di “Non Cresce l’erba“, serie web prodotta da Dinamo Film e poi sbarcata su MTV.

Se volete sapere cosa ci accomuna non vi resta che partecipare alla presentazione di Domani No e scoprire la bellezza e le prospettive del The Hub! E per chi si fermerà dopo la presentazione la possibilità di partecipare al gioco Domani No in Tabula, ovviamente con i protagonisti del romanzo. Almeno ci proviamo.

Vi aspetto.

960106_629393317089239_1062838292_n

L’unico che ha capito tutto è Mauro Repetto

12 Giu

Prima che iniziate a leggere voglio avvisarvi che questo non è un post sugli 883. Dei quali però ammetto di conoscere discografia e storia. Sono diventato maggiorenne alla fine degli anni ’90 e di conseguenza sono stato traviato da canzoni quali Come mai e Nessun Rimpianto. Ho ballato Nord Sud Ovest Est muovendo le braccia in alto, in basso, a destra e a sinistra, sono rimasto seduto in una stanza pregando per un sì, e pure più di una volta. Anzi, adesso che ci penso, sono più le volte che l’ho fatto per il semplice gusto di soffrire, ma di questo ne ho già parlato in un altro post.

Gli 883, dicevo. Lunedì sera becco in tv questo bel servizio su Rai 2, un programma chiamato “Emozioni“. Lottando tra il sonno e la veglia, tra la voglia di andare a letto e quella di cazzeggiare un altro po’ con lo smartphone, nell’inferno delle notifiche di Facebook, Twitter e Whatsapp, inizio ad appassionarmi a questa storia. Una storia che conosco già, ma devo ammettere che il programma è ben confezionato. Fiorello, Cecchetto, Max e Repetto si confidano, si lasciano andare e la voce fuori campo gioca con i loro racconti in maniera essenziale, leggera, alternando canzoni e parole. Che ci piaccia o no gli 883 la nostra storia l’hanno cantata. Certo, non tutti abbiamo cantato con loro (e meno male) ma non si può negare che la loro breve carriera, soprattutto a cavallo tra il 1992 e il 1995 sia stata costellata di successi incredibili. Dischi d’oro, Festivalbar, tormentoni. La gente li acclamava, le piazze impazzivano, le radio passavano le loro canzoni, gli adolescenti (noi, cazzoni di oggi) crescevano. Male.

Chi mi conosce sa che sono particolarmente sensibile al tema del successo che ti travolge e non ti lascia libero di vivere le cose più semplici e belle della vita, soprattutto ad una certa età. E d’altronde su questo tema ci ho scritto un romanzo intero, Domani no, una storia nella quale Mauro Repetto, viene nominato più volte. L’ho sempre adorato, il biondino degli 883. Per molti era un cazzone, per me era una ventata di ottimismo. La sua presenza sul palco era tutt’altro che inutile. Si dimenava come un ossesso, non sapeva ballare, ma si cuciva le canzoni addosso e le gettava in faccia alla gente. Quelle canzoni che lui stesso scriveva. Ok, non stiamo parlando di grandi cantautori, ma i suoi testi hanno contribuito a vendere milioni di dischi e hanno dato al suo amico Max una sorta di rendita eterna. Vi dice niente questo incipit: Le notti non finiscono, all’alba nella via.

Ma arriva un momento in cui Mauro Repetto si sente prigioniero del successo, non riesce più a gestirlo, a suo dire non si diverte più. E scappa. Dà appuntamento a Max dopo la vacanze di Pasqua, e non torna più. Si innamora di una modella che non gliela darà mai, la segue in capo al mondo e si inventa di nuovo, sbagliando. Mi ha colpito molto questo passaggio dell’intervista, quella nella quale Repetto ammette tutti i suoi fallimenti: il produttore che lo aggira promettendogli un film e scappando con i soldi, l’album da solista (Zucchero filato nero, il titolo avrebbe meritato di più), e altri goffi tentativi a stelle e strisce. “Ho preso bastonate dappertutto – dice senza rimorso – ho perso ovunque 4 a 0“. Finirà a fare l’animatore a Disneyland, ma non è questo il climax della storia. Romantica è l’uscita di scena, romantico il non avere mai avuto rimpianti. Mai e poi mai Mauro Repetto ha parlato della sua fuga come di un errore. Eccola, la bellezza. Ritornerà sul palco, qualche anno dopo, a salutare Max, ma solo per un attimo. Niente più balli per lui, niente danze, niente carrozzoni. 

La storia del biondino degli 883 (che oggi non è più biondo) è quella di un ragazzo che si è sentito travolto dal successo. Che è fuggito, che ha riprovato, che ha fallito, e non ha fatto nulla per nasconderlo, in un epoca in cui tutti cantano i propri successi e nessuno considera i fallimenti. Ha preso coraggio e si è messo alle spalle una gloria sicura, destinata a durare chissà quanti anni ancora. Ha anticipato i tempi, a suo modo ha contribuito a rendere quel periodo mitico. Insomma, come scriveva ieri Max Trisolino (a lui devo il titolo e l’idea di questo post) l’unico che ha capito tutto è Mauro Repetto. Forse non resterà nella storia per le canzoni e per i  balletti, ma io su un personaggio così ci scriverei un romanzo, se solo non ne avessi già scritto uno simile. Sebbene Ernesto, il protagonista di Domani No, possegga caratteristiche, sfumature e tratti molto diversi da quelli di Mauro. Ma questa è un’altra storia, se vi interessa potete leggerla altrove. 

L'unico che ha capito tutto è mauro Repetto

L’amore è folle, ma fino a un certo punto

4 Giu

Non so se questo articolo farà incazzare, credetemi non è mia intenzione. Ma da un paio di giorni mi frulla in testa questo post e proprio sabato sera ne parlavo con due amici, dopo la presentazione di Domani No. Nelle ultime settimane, direi più che altro negli ultimi mesi, si è parlato, e molto, di stalking, violenze, fatti tristemente accaduti in Italia e non solo, generati da gelosie, tradimenti e quello che viene chiamato, ahimè, amore folle. L’amore purtroppo non può essere folle, perché la follia, di solito, non porta a nulla di buono. L’amore può essere romantico (forse, a volte romanticismo fa rima con maschilismo), al massimo disperato, ma in questa epoca, con questo aggettivo, siamo già al limite del consentito. Sono tempi scuri, chiariamolo subito. La cronaca ci ha raccontato vicende come quella di Pistorius o della ragazza picchiata (e tornata) dal suo ex, sempre per amore, dice lei. E la cronaca, si sa, ci fa preoccupare, pensare che la follia sia dietro l’angolo, e che ogni persona tradita, sostituita o semplicemente mollata, possa commettere qualche cazzata di questo tipo.

La conseguenza estrema (fatemi essere estremo ed estremista per un giorno) è che il lasciato debba accettare tutto di buon grado. Il che è cosa buona e giusta in una società civile e razionale, ma in una società con un minimo di sentimento sarà ancora possibile tirare sassi a una finestra accesa? O dopo un minuto arriva la polizia e denuncia il romanticone per disturbo della quiete pubblica? Credo che l’incomprensione sia dietro l’angolo. Non sto dicendo che bisogna commettere pazzie per amore (un tempo, al buon Orlando, per Angelica, fu consentito), sto solo dicendo che tutti questi bruttissimi eventi, annullano la possibilità di poter andare oltre il “Ma sì, restiamo buoni amici“. E quindi mi sono divertito a pescare dieci canzoni che oggi non si potrebbero più scrivere. O quantomeno andrebbero scritte con meno leggerezza. Perché i protagonisti di queste canzoni, poveri scemi innamorati, verrebbero denunciati per stalking, o probabilmente arrestati per disturbo della quiete. O magari finirebbero alla neuro per insanità mentale.

E quindi, caro Massimo Ranieri, smettila di sbattere la testa mille volte contro il muro, il vicino potrebbe incazzarsi.

Anche tu, Eduardo De Crescenzo, finiscila di tirare sassi ad una finestra chiusa. Ti ha detto di no, e le pietre fanno male se poco poco apro la tapparella.

Raf, inutile che dici che la pretendi. Qui non devi pretendere proprio nulla, e lei non è un tuo diritto come dici tu.

Il protagonista di Amore disperato di Nada, dovrebbe smetterla invece di chiamare. Sta chiamando, sta chiamando, sta chiamando, cosa cazzo chiami? La denuncia per stalking è dietro l’angolo caro mio.

Con J Ax è fin troppo semplice: o ti amo o ti ammazzo non prevede ironia, anche quando dice parliamoci o pestiamoci. E come se non bastasse c’ha pure la mano sanguinante.

Gli Sugarfree (citazioni di un certo livello oggi, lo so) dicono di essere affetti da un morbo incurabile: se ti vedo devo averti tra le mie mani. No ragazzi, non si può, bisogna trattenere gli istinti.

Con Marco Masini il gioco risulta essere fin troppo semplice: fossi in lui rinuncerei a strappare alla sua bella stronza quei vestiti da puttana. E anche al lunghissimo minuto di violenza. Qui si va nel penale, Marco.

Little Tony ha sofferto abbastanza per amore. Ma con la spada nel cuore ha davvero esagerato. Mi sento di morire per te non si dovrebbe dire, qualcuno potrebbe pensare che lo farai davvero, e allora uno psicologo non basterebbe.

Beh, su Vasco c’è una discografia intera dedicata all’esagerazione. Innanzi tutto vorrei sapere cosa ci faceva con le mani tra le gambe di una ragazza di 16 anni. E hai voglia a dire che “diventerai più grande”. E poi anche quell’Alfredo, il negro, la troia, e ‘sta stronza che non si è neanche preoccupata di dire qualcosa (che so, una scusa)

Preferisco viverla come Samuele Bersani, levare via il tappeto e mettermi dei pattini per scivolare meglio sopra l’odio. Torre di controllo aiuto sto finendo l’aria dentro il serbatoio. Almeno lui non rischia di prendere nessuna denuncia.

Ma un po’ di dolore, di voglia, di sentimento e di sana sofferenza lasciatecelo. Fatemi soffrire bene, come diceva Massimo Troisi nel suo capolavoro Pensavo fosse amore invece era un calesse. Almeno a parole. Almeno nelle canzoni.

love-passion-men-women-zbyszek-PARY

71) Bari – Parma, 4 aprile 2009 – U Bàr iè fort (?)

23 Mag

Il calcio mi ha sempre confuso le idee. Forse è per questo che lo odio profondamente, a tal punto da amarlo alla follia. Ho letto Nick Hornby e sono rimasto folgorato da un passaggio del suo “Febbre a 90°” quando dice che “Ci sono quei momenti in cui non sai se la vita è una merda perché l’Arsenal va da schifo o viceversa“. Ecco, ci sono momenti in cui mi vergogno di ammettere che per me è la stessa cosa. Il Bari va bene, vince, diverte, e la mia vita va alla grande. Il Bari perde colpi, arranca, retrocede e io inizio a riconsiderare delle cose, a metterle in discussione insomma. Poi arriva il bello però. Perché dopo una stagione negativa, c’è sempre la possibilità di un riscatto. E dopo una partita, ce n’è sempre un’altra, e anche se tutto sembra perduto, ecco che arriva la possibilità di una svolta.

Devo fare ammenda. Ho pensato in passato che, per il solo fatto di amarmi, una ragazza dovesse condividere una mia passione. Tanto da accompagnarmi, esultare con me, essere persino triste (con me e per me) a causa di una sconfitta. Ma questo non accade nemmeno nei romanzi (oddio, forse nei miei sì). Magari all’inizio c’è quella sorta di solidarietà interessata che ti porta a pensare “Ma sì, che vinca questo Bari, almeno anche lui è più felice“. Ma poi alla lunga quella è solo la tua squadra. E a chi importa se non gioca più come una volta, se perde, se diventa la barzelletta d’Italia per una brutta storia di scommesse ed autogol grotteschi? A chi importa? A lei no di certo. E mica puoi biasimarla, l’amore è una cosa seria, dicono, non una partita di calcio. 

Il 4 aprile del 2009 mi sembrava tutto perfetto. A poche settimane dal trionfo di Sassuolo l’ultimo vero ostacolo verso la serie A è il Parma di Guidolin. Una squadra costruita per ammazzare il campionato, stravincerlo e tornare subito nel massimo campionato. Ma in Emilia non hanno fatto i conti con la grinta di Antonio Conte. Il suo Bari, il mio Bari, gioca meglio, diverte, è frizzante e soprattutto ha fame. Come me. Nove anni di digiuno sono troppi, c’è una voglia immensa di tornare a far parlare di noi, di esultare, di abbracciarci. Prima contro seconda, finalmente rivedremo lo stadio pieno, penso. Non so quanti anni sono passati, ma sono sicuramente troppi. Non ho paura. Niente può andare male, ho la persona che amo a fianco, e muoio dalla voglia di farle vedere uno stadio vero.

Uno stadio che ribolle di passione. Altro che l’eccellenza, altro che la serie B che vedi da altre parti. Qui siamo al San Nicola, benvenuti. Ci sediamo in curva, fa caldo ma è un caldo piacevole, tutto sembra preciso, perfetto. Il calore del sole, la temperatura del vento, il colore del cielo. Un azzurro che dà fiducia. Neanche una nuvola, e lo capisci subito che quella sarà una giornata perfetta. Poi i ragazzi scendono in campo, ancora in tuta, per controllare le condizioni del terreno, e io mi giro a guardare il suo stupore. Ovazione. Calore. Andiamo ragazzi, mettiamoci alle spalle tutta sta merda che abbiamo passato. Qualcuno guarda la curva, qualcuno si fa una foto, Kutuzov strappa un pezzo d’erba e se lo mette nella tasca del marsupio. Poi baci, carezze, chiacchiere, telefonate “Mamma, qui è tutto bellissimo, c’è un sacco di gente, e se non mi senti è perché c’è troppo amore.

Prima della partita parte la sciarpata. Bari grande amore. Forse per la prima volta il San Nicola si unisce davvero intorno a quei ragazzi. Bari unica e sola. Qualcuno lo merita, qualcuno tradirà, ma in quel momento questo dubbio non c’è e un unico grande abbraccio li stringe. Bari nel nostro cuore, non ti lasceremo da sola. Conte rispolvera Lanzafame dopo qualche prova opaca e molta panchina. Dall’altra parte c’è Guberti, si gioca con il solito 4 – 2 – 4 ma Guidolin ha preso le misure. Forse per la prima volta il gioco del Bari non si vede. Quella vecchia volpe di Guidolin ha imbrigliato il giovane e rampante allenatore avversario. Fasce bloccate e tanti saluti. Il Mister prende nota. Imparerà, in futuro, a trovare alternative in situazioni come queste. Ma quel giorno alternative non ce ne sono, c’è solo l’illusione di poterla vincere lo stesso questa partita. Il pubblico, la passione, il calore, come si fa a perdere?

E poi capita, perché in fondo puoi perdere anche se ci metti tutto l’amore del mondo e non è un caso che il gol del Parma porti la firma di Vantaggiato. Lui che già ci aveva punito a Rimini qualche mese prima, quando indossava un’altra maglia e quando nonostante il freddo, il vento che veniva dall’Adriatico, e la pioggia, si saltava e si ballava in una gradinata vecchia e instabile. Quando si iniziava a pensare che forse, ma forse, quello poteva essere l’anno. Vantaggiato scarica tutta la rabbia in rete, corre verso la sua curva, esulta, si toglie un altro sassolino dalla scarpa e lo scaglia contro una tifoseria che mai l’ha capito. Il tempo di un affondo, di una risposta, di un tiro di De Vezze da fuori sventato da Pavarini, e il Parma rimette il naso fuori e con Paloschi, di testa, raddoppia. La gente incomincia a guardarsi attorno e a pensare che in quella giornata così bella non è poi così tutto perfetto. Magari è colpa di quelli che fino alla settimana prima sono stati a casa e adesso “Eccoli i tirapiedi che sono venuti apposta per portare sfortuna alla Bari! L’muert de l’tirapid“.

Il Bari non c’è, si vede, la partita resta sui canali che Guidolin ha stabilito. Pochi rischi, molti contropiedi, e zero spettacolo. Il secondo tempo serve solo ad accrescere le nostre insicurezze. Stanno dietro di noi ma sono molto più forti, pensiamo ad amministrare il vantaggio nelle prossime giornate. Mentre qualcuno inizia a pensare alla serie A che può sfuggire arriva la più bella delle notizie. Al novantesimo. Il Vicenza, su rigore, pareggia a Livorno. La terza in classifica rimane a debita distanza. Io mi giro, guardo ancora la faccia della persona che amo e mi illudo che in fondo sì, è tutto perfetto. La prossima la giochiamo ad Ancona, a pochi kilometri dalla mia nuova casa, e ricominciamo a vincere. Il sole splende, il cielo è ancora terso, e niente può compromettere la mia felicità. Perché il Bari è ancora primo. E io sono innamorato. Così tanto da illudermi che quella serenità e quella gioia venga da una stupida partita, da una meravigliosa cavalcata, da un campionato che non scorderà mai. O forse era davvero così.

Prossima partita: Bari – Lanciano, 13 aprile 2013 

La curva nord in Bari - Parma

La curva nord in Bari – Parma